Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 52.9
Materia: membranaceo
Dimensioni: mm 256 x 245 (246 x 243)
Carte: III + 162 + III’
Segnatura della Parva libraria di Santo Spirito: III.1
Tipo di scrittura adottata da Boccaccio: littera textualis
Datazione del codice e della scrittura boccacciana: 1365 circa e in seguito
Contenuto:
Boccaccio, Giovanni, Tabula rubricarum delle Genealogie deorum gentilium (cc. 1ra-8ra)
Boccaccio, Giovanni, Genealogie deorum gentilium (cc. 9ra-162vb)
Descrizione:
Riconosciuto autografo di Boccaccio da Oskar Hecker nel 1894, come mostra un biglietto incollato alla c. IIr, il codice risale agli anni Sessanta del Trecento, quando Boccaccio volle allestire un esemplare delle proprie Genealogie deorum gentilium, un vasto repertorio sulla mitologia classica articolato in 15 libri. L’esemplare non è un codice di dedica, ma è concepito come un grande libro di cultura ed erudizione del Trecento: lo mostrano il grande formato, la mise en page con la distribuzione del testo su due colonne dai margini piuttosto ampi, l’adozione di una littera textualis di modulo ridotto particolarmente elegante. I margini sono corredati da numerosi notabilia apposti manu propria dall’autore, in cui sono indicati gli auctores di volta in volta citati. Boccaccio si curò anche delle decorazioni, in particolare degli alberi genealogici, con funzione didascalica ed esplicativa, che aprono i primi 13 libri (si è ipotizzato un adattamento alle genealogie delle divinità pagane del biblico albero di Jesse; va detto che analoghi alberi si trovano anche nello Zibaldone Magliabechiano a rappresentare perlopiù genealogie dei sovrani, come Roberto il Guiscardo, o Matilde di Canossa, ma anche della Vergine Maria e di Giuseppe). Dopo la stesura, ben presto Boccaccio si dedicò a una meticolosa revisione del testo: questo autografo divenne ben presto un esemplare redazionale, con integrazioni, aggiunte o soppressione di passi, modifiche. L’iter redazionale dell’opera ha avuto un momento decisivo nel soggiorno del Certaldese a Napoli dall’autunno del 1370 alla primavera del 1371, da dove incominciò la prima divulgazione dell’opera, fuori dal controllo dell’autore. Boccaccio portò con sé il volume, che fu lasciato in custodia a Ugo di Sanseverino, conte di Tricarico, fedele della regina Giovanna I d’Angiò, con la preghiera di non farlo copiare perché ancora bisognoso di correzioni e migliorie. Il codice passò però nelle mani di Pietro Piccolo da Monteforte, insigne giurista della corte angioina, uomo di grande cultura, che ne fece trarre una copia per sé stesso e una per il convento napoletano di San Domenico, giudicando le Genealogie una lettura utile per maestri, studenti e predicatori. Pietro Piccolo intervenne con delle rasure e lasciò anche alcune note marginali di grande interesse, riguardanti la distinzione dei due Seneca, l’auctor moralis, dal poeta tragicus (la sua mano è abbastanza riconoscibile e si distingue da quella boccacciana per l’uso della a onciale e della g chiusa). Quella dei Seneca è una questione letteraria e filologica di grande rilievo negli anni Sessanta del XIV secolo, che coinvolse anche Petrarca, invero piuttosto perplesso e prudente relativamente alla distinzione tra il Seneca prosatore e il tragediografo (così nel testo α della Fam., XXIV 5, databile al 1365). L’ipotesi dell’esistenza di due Seneca, il secondo dei quali attivo in età flavia, elaborata con ogni probabilità a partire da alcuni epigrammi di Marziale (vd. scheda del ms. Milano, Bibl. Ambrosiana, C 67 sup.) e dall’Octavia (che al tempo non era ritenuta apocrifa), è esposta e ribadita vigorosamente anche nelle tarde Esposizioni sopra la Commedia di Dante. Questo codice laurenziano, noto come A o Aut (in quanto autografo) non trasmette l’assetto redazionale ‘ultimo’ del testo, la cosiddetta Vulgata (Vulg.), costituitasi dopo il ritorno dell’esemplare a Firenze, all’incirca dal 1372 al 1375 (Boccaccio recuperò il suo esemplare non prima del 5 aprile del 1372). Nell’ultima fase di revisione dell’opera Boccaccio accolse, allestendo un’altra copia ora perduta, anche le integrazioni e precisazioni suggerite da Pietro Piccolo, che furono recepite in Vulg. L’edizione critica di Vittorio Zaccaria non si basa quindi su questo testimone, ma restituisce il testo sulla base dei testimoni latori di Vulg. La più importante novità delle Genealogie boccacciane è l’inserimento di numerosi passi, perlopiù versi omerici, in lingua greca, aspetto che il Certaldese rivendica con orgoglio nel XV e ultimo libro dell’opera. Dei passi in greco Boccaccio fornì anche una traduzione latina di servizio, collocata sui margini (come segni di richiamo disegnò piccoli animali come api, formiche, uccelli, anche una testina di leone). In sede di restitutio textus si discute se queste traduzioni siano da promuovere a testo (come ha fatto Zaccaria), o da relegare in un apparato. Fonte per il testo greco e la relativa traduzione sono state le edizioni omeriche, con greco e resa latina interlineare, di Leonzio Pilato, che lo stesso Certaldese ospitò a Firenze nel biennio 1362-1363. Il Plut. 52.9 presenta, come altri autografi boccacciani di opera propria (il Ricc. 1232 del Buccolicum carmen), delle alternative testuali introdotte da al. o vel. classificabili come “varianti attive”, che testimoniano ulteriormente lo stadio provvisorio e in fieri di questo prezioso autografo. Il manoscritto passò a Martino da Signa, per poi giungere a Santo Spirito, dove fu registrato tra i volumi della parva libraria nell’inventario del 1451 con la segnatura III.1. Confluì, probabilmente nel Cinquecento, nella biblioteca medicea.
Link della riproduzione: https://tecabml.contentdm.oclc.org/digital/collection/plutei/id/821425/rec/1
Bibliografia: Boccaccio autore e copista, pp. 177-179 (L. Regnicoli); Autografi, pp. 50-51 (Fiorilla-Cursi)